Il caso Facebook / Cambridge Analytica ha apparentemente riportato
l’attenzione sul tema della privacy e della gestione dei dati sensibili. Ma non
a tutti i livelli.
Mentre la stampa generalista e di
settore rilancia informazioni sempre più sconcertanti sulla gestione (e
soprattutto l’utilizzo) delle informazioni acquisite attraverso i social, le
istituzioni, gli investitori e i competitor del social americano si interrogano
sui possibili scenari futuri.
Le strategie di crisis management
e crisis communication di Facebook non hanno convinto i mercati e le
istituzioni che – inermi fino a qualche giorno fa – adesso si prodigano in
attivissime richieste di chiarimenti da parte dei vertici delle aziende
interessate dallo “scandalo”. In tutto questo, Cambridge Analytica, secondo
quanto traspare, fa ostruzionismo e non consegna informazioni utili circa la
sua reale attività.
In questo articolo non
analizzeremo la disastrosa strategia di gestione della crisi di Facebook, ma
desidero porre l’attenzione sul grande assente di questa questione: il
pubblico. Ovvero coloro che hanno “donato” i dati di cui sopra.
Al di là di fughe “eccellenti”
dal social, come ad esempio quella di Elon Musk che ha messo in stand-by le pagine di Tesla e SpaceX,
navigando su Facebook non si vedono grandi differenze nell’utilizzo da parte
degli utenti. I veri protagonisti inconsapevoli di questo “Datagate”.
Mentre su Twitter è diventato
virale l’hashtag #deletefacebook (“cancella facebook”, più traducibile in
“abbandona facebook”), suona anomala la dichiarazione di Brian Acton, il
fondatore di Whatsapp, che ha venduto proprio a Zuckerberg nel 2014 la propria
app, secondo cui sarebbe arrivato il momento di abbandonare Facebook. Un fuggi
fuggi generale, che però non vede tra i protagonisti l’esercito di persone che
usano quotidianamente il social media.
L’effetto sul pubblico è confuso
e ha molte sfaccettature. Si va dal totale disinteresse sulla questione, al
semplice rammarico annunciato sulla stessa piattaforma, passando per la
pontificazione giuridica senza titoli e
finendo con l’amara consapevoleza di chi sa di non poter più fare a meno
del nutrimento al proprio ego fornita da Zuckerberg e dalla dipendenza
sviluppata verso il social.
Tra creazione di “marcatori
somatici” e dipendenze, “dissonanze cognitive”, aumento dell’analfabetismo
funzionale, possibilità di controllare a
distanza il proprio vicino di casa e la sua amante e “l’incredibile
opportunità” di diventare sedicenti testimonial senza avere nessun mandato da
parte di terzi, il pubblico accetta di pagare un prezzo per tutto questo.
Un prezzo non percepito
totalmente perché senza esborso monetario diretto.
Rimango personalmente colpito dal
clamore di alcune dichiarazioni di queste ore, spesso postate su Facebook (!),
relative al passaggio di dati tra aziende. Questo mio approccio è dato dal
fatto che questa attività è dichiarata nelle condizioni di utilizzo del social,
che vengono accettate e che non vengono mai lette, perché troppo impazienti di postare
la prima foto del gattino o del cagnolino. Quanto sta accadendo in queste ore è
previsto e dichiarato. Ed è un problema che non interessa solo Facebook, ma
anche le caselle e-mail e tutti i servizi digitali.
Personalmente, ho aperto una
casella di posta su Gmail, e nelle condizioni si dichiara che i dati
(ovviamente sempre per migliorare la nostra esperienza di navigazione ecc.),
possono essere condivisi con aziende terze “e con persone di fiducia”. Ora di
chi si fidino costoro non ci è dato sapere.
La sensazione è che, al di là
dell’apatia e della dipendenza sviluppata – o fatta sviluppare – dalla platea
sull’argomento privacy, non vi sia possibilità di difendersi davvero. Al punto
che questa pecca normativa è stata istituzionalizzata con l’inserimento della
normativa sui coockies, che ci infastidisce con un pop up ogni volta che accediamo ad un sito web e che continuiamo a
non leggere.
Concludo quindi questo mio contributo,
ponendomi una semplice domanda: La privacy che è al centro dei media in questi
giorni, esiste? È possibile vivere senza essere intercettati, digitalizzati,
studiati, geolocalizzati e ripresi nel mondo reale e in quello virtuale?
La risposta è no. Ogni volta che
usiamo una carta fedeltà (chiamata “carta di profilazione” nel marketing), una
carta di credito, che passiamo davanti ad un negozio, una banca, entriamo in
una stazione, o semplicemente camminiamo per strada siamo al centro di
obiettivi e algoritmi che incrociano i nostri dati e le nostre abitudini. Molto
spesso i nostri dati non vengono estrapolati, ma siamo noi che li cediamo con
una facilità – quella sì – sconcertante.
Non si tratta di appoggiare un
sistema che ormai è consolidato, ma semplicemente di una presa d’atto legata al
sistema che si è creato intorno a noi, per responsabilità anche personale. Perché
in questa dichiarazione di consapevolezza, deve far parte anche un’analisi di
responsabilità individuale che non può sempre interessare gli altri.
Quando nel 2011 ho pubblicato il
mio Manifesto del Marketing Etico, scaricabile gratuitamente a questo indirizzo
www.manifestodelmarketingetico.org,
e ho iniziato a girare il Paese mettendo in guardia i consumatori circa questi
pericoli e quelli derivanti dal dirty marketing, i primi segnali di una
patologia di sistema conclamata c’erano già. Forse questo potrebbe essere il
momento di un’analisi personale e da condividere, non via social, con coloro
che ci circondano.
Emmanuele Macaluso